Secondo Piero Lissoni un buon progetto d’albergo è una miscela alchemica tra esigenze dell’operatore, logistica e creatività. Perché non c’è progetto che non abbia bisogno di un cliente serio, anche in contrasto, con il quale incrociare le lame. Un cliente che sa cosa sta facendo
Per Piero Lissoni ospitalità è prima di tutto cortesia, quella speciale attitudine a fare sentire chiunque a proprio agio. Ed è proprio questo tipo di cortesia che avverto quando vengo ricevuta nel suo studio in centro a Milano, scoprendo un architetto, un designer, una persona che ama dire quello che pensa, oltre le mode e i luoghi comuni. A volte polemico, ironico, mai banale.
All’attivo tanti progetti nel settore dell’hotellerie, il Roomers a Baden Baden, il Conservatorium ad Amsterdam, il Billia a Saint Vincent, Casa Fantini sul lago d’Orta, solo per citarne alcuni. La domanda nasce spontanea. Con questo background, quali sono i punti principali per sviluppare un buon progetto?
Per fare un buon progetto bisogna partire prima di tutto dalla logistica. Molto spesso noi ragioniamo di alberghi in termini estetici ma il vero punto cruciale, quello che fa la differenza tra un buon albergo e un albergo mediocre, è la logistica. Un buon albergo ha bisogno di una logistica ferrea. Ed è la logistica che determina la qualità. Per esempio non è necessario disegnare una magnifica lobby, ma è necessario progettare un modo per accogliere le persone e farle sentire in quel momento al centro dell’attenzione. Tutte le volte che abbiamo disegnato alberghi, abbiamo disegnato la logistica e l’interferenza che c’è tra me ospite e chi mi accoglie. Nel corso degli anni e dei progetti abbiamo cambiato questo rapporto. A volte abbiamo disegnato dei desk di accoglienza, altre volte al posto del desk abbiamo messo grandi tavoli introducendo l’accueil direttamente nella lobby, con il personale che ti offre qualcosa da bere, ti ascolta, si prende cura di te.

Questo diverso modus operandi rientra nell’evoluzione del concetto di ospitalità o è una richiesta specifica dell’operatore?
La formula è una miscela alchemica. Chi decide come deve funzionare la vita dell’albergo è prima di tutto l’operatore che disegna su se stesso il suo modo di operare, quella che prima ho chiamato logistica. Nessun albergo viene disegnato dall’architetto, ma l’architetto lavora sulla logistica dell’operatore. Dimentichiamoci la visione romantica secondo la quale l’architetto disegna qualcosa e gli operatori si adeguano. E’ una favola che hanno raccontato alcuni miei colleghi, ma non è vera. E quando è stato fatto da alcuni “colleghi fenomeni”, dopo pochi mesi hanno dovuto rifare gli alberghi perché non funzionavano.
Quanto c’è del grande architetto in un progetto e quanto invece del cliente?
Qualsiasi progetto ha bisogno di due interlocutori: il cliente, magari un po’ visionario ma con idee precise – quando ci siamo trovati a che fare con un cliente confuso il progetto ha stentato a decollare – e il progettista, piccolo o grande non conta. Non c’è progetto che non abbia bisogno di un cliente serio, anche in contrasto, con il quale incrociare le lame, ma un cliente che sa cosa sta facendo. È un passo indietro quello che faccio io. Come in tutte le cose il modello creativo è un modello un po’ romantico. Non funziona così. Il modello creativo funziona se c’è un team di lavoro molto forte che lavora insieme, anche scontrandosi, ed è lì che vengono fuori le soluzioni che possono cambiare in meglio un progetto. Nessuno di noi, e chi racconta il contrario racconta una grande bugia, ha cambiato la pelle degli oggetti sulla pelle di chi poi ci deve lavorare dentro. Quando sento questo rumore un po’ sinistro di sottofondo “io ho fatto” mi preoccuperei sempre un po’. Poi l’architetto diventa la faccia pubblica di un progetto, se va speso il progetto e se va spesa la faccia.

Quindi meglio la grande catena del piccolo operatore?
No, molto spesso mi sono trovato di fronte a grandi brand con un’idea retrograda, con una capacità di progettare ed essere nel proprio tempo pari allo zero. Le grandi catene hanno spesso un establishment interno che si guarda bene dal modificare le cose. Dal momento che hanno funzionato fino a ieri, funzioneranno anche domani. Ma non è vero. Ho parlato di visionari: abbiamo bisogno di clienti veri, forti, capaci di prendere decisioni ma complici nella visione, altrimenti non andiamo da nessuna parte. Torno a ripetere, io posso anche immaginarmi come deve essere il back office ma se il mio interlocutore, quindi l’operatore alberghiero, non mi dà il ritmo della musica non la posso scrivere né la posso suonare.
Quali sono gli errori più frequenti nella progettazione alberghiera?
L’errore più frequente, secondo me, è quello di immaginare il cambiamento di vita altrui partendo da una specie di presupposto ideologico. Io adesso ti disegno un altro modo di utilizzare l’albergo perché io sono convinto che questa è l’evoluzione. In realtà costruisci un albergo peggiore dei precedenti.
Quindi non ci deve essere imposizione da parte degli architetti.
No. E quando in passato questa imposizione c’è stata, qualche diavoleria sicuramente è venuta fuori.

Ci racconti un progetto d’albergo progettato da voi al quale si sente particolarmente legato.
In realtà, e lo dico con occhio molto critico, mi piacciono tutti e non me ne piace neanche uno. In tutti i progetti che ho fatto credo di averci messo tanto del mio e in ciascun progetto vedo un sacco di difetti. Il paradosso è che nei progetti successivi metto a posto i difetti dei progetti precedenti, ma ne aggiungo anche di nuovi. Quindi è sempre una macchina in progress. Gli errori sono una parte fondamentale di questa alchimia. L’albergo perfetto credo che nessuno di noi riuscirà mai a disegnarlo. Per fortuna l’albergo ideale non esiste, altrimenti saremmo finiti, una volta trovata la formula la si riprodurrebbe all’infinito, escludendo la novità.
Nei suoi progetti si trova sempre qualcosa di leggero, come oggetti di arredo che arrivano da tutto il mondo, con un loro stile spesso fuori dal contesto, o piccole imperfezioni come sedie diverse intorno a un tavolo.
È una questione di cifra stilistica. A me piace pensare che tutti questi luoghi abbiano una specie di linguaggio e il linguaggio non è necessariamente perfetto. Quando disegno mi piace pensare che ci siano dentro degli errori. Sono gli errori che circondano le nostre vite. Noi non viviamo uniformati, viviamo in mezzo a un sistema che quotidianamente ci regala emozioni, in positivo e in negativo.. A me non piace disegnare alberghi come se fossero dei cataloghi. Non progetto neanche gli oggetti di design come se fossero dei cataloghi. Per me l’uniformità è un difetto, mi è sempre piaciuta la commistione, e riportare, in piccolo, la vita quotidiana di ciascuno di noi. Viviamo bombardati da mille suggestioni provenienti da ogni parte del mondo, ci vestiamo mescolando gli stili, ascoltiamo differenti tipi di musica, leggiamo libri di autori diversi. Un conto è mettere a posto il Ritz, un albergo progettato in stile settecentesco, falso ma ormai storicizzato, che forse è bene che rimanga così. Ma se devo progettare nel 2018 un nuovo albergo mi adatto a quello che penso sia il linguaggio da usare, quindi metto le sedie antiche cinesi con gli orologi a cucù.

I suoi progetti di hotel, pur appartenendo alla categoria dei cinque stelle, rifuggono dal lusso ostentato.
La parola lusso già suona male, ha una sonorità fastidiosa. Mi ha sempre dato la sensazione di una parola vuota, una specie di muro di Berlino rispetto al resto del mondo. Ti offro una cosa lussuosa, quindi automaticamente è qualcosa con un’etichetta.. Ma il lusso, quello vero, è qualcosa di diverso: è un pezzo di pane fatto come Dio comanda, con una strusciata di pomodoro come Dio comanda e con un filo d’olio come Dio comanda, non certo mangiare il caviale a cucchiaiate. Quindi preferisco pensare che quello che comunemente viene definito lusso per me è qualcosa di diverso: è un modello più sofisticato, più intenso. La capacità di combinare semplicità, complessità ed eleganza.
Lissoni architetto-Lissoni designer. Qual è la versione che preferisce?
Sono la stessa persona, la stessa figura. Un filo schizofrenico perché devi cambiare scala. Un tempo si diceva che fare il mestiere dell’architetto significava disegnare “dal cucchiaio alla città” (slogan coniato dall’architetto Ernesto Rogers nel 1952, ndr), secoli prima un tale scriveva che per essere architetto devi essere ingegnere, scultore, pittore (Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, 1485-ndr) e comunque avere delle conoscenze umanistiche. Il design lavora con delle proporzioni come l’architettura, e le proporzioni che legano l’uno e l’altro sono quelle degli esseri umani. Tra il design e l’architettura c’è però una differenza, bisogna cambiare il dettaglio di responsabilità. Se disegno una sedia ho una responsabilità formale rispetto all’azienda che mi ha commissionato il lavoro. Ma se disegno un brutto edificio la mia responsabilità si estende a tutti quelli che potrebbero non apprezzare quello che ho disegnato e viverlo come una violenza.
Piero Lissoni è famoso per avere un’attenzione quasi maniacale per il dettaglio.
Tolga il quasi. In Germania, dove sono tutti calvinisti, dicono che Dio è nei dettagli. Io che sono nato in un paese cattolico dico che il Diavolo è nei dettagli. Immaginiamo che un numero impressionante di dettagli diventino una figura complessa, se i dettagli sono sbagliati anche la figura nella sua totalità risulterà imperfetta. Ecco spiegata l’importanza dei dettagli. Il dettaglio è fondamentale, anche perché fa parte di quella famosa scala delle proporzioni della quale si parlava prima.

In quale tipo di hotel non le piace soggiornare?
Più della metà della mia vita la passo in albergo per lavoro e buona parte degli alberghi in cui ho soggiornato non mi piacciono. Non mi piacciono quelli in falso stile minimalista, non mi piacciono quelli che tentano di essere modernisti a qualsiasi costo senza averne la capacità di controllo. Né mi piacciono quelli “che fanno finta di”. Non mi piace lo stile “yankee in giro per il mondo”.
Non parliamo quindi degli hotel super lusso per arabi e russi…
Secondo me questa degli arabi e dei russi è un po’ una bufala. Questo oggetto è disegnato in maniera così volgare perché al cliente arabo, russo o cinese piace così. No, è volgare e basta e può piacere all’italiano, al russo, all’arabo che utilizzano lo stesso codice. È un discorso che non mi interessa. Non voglio lavorare per tutti.
E dove invece le piace soggiornare?
Negli alberghi piccoli, che non appartengono alle catene. Quelli con un mimino di anima. Poi ci sono catene che hanno capito il giochino e riproducono in giro per il mondo alberghi che sembrano pezzi unici, riuscendoci molto bene.
Cosa pensa degli hotel a tema, ad esempio quelli eco chic?
Lasciamoli a chi abbocca. Vanno bene solo dal punto di vista della comunicazione. Gli alberghi sono macchine costosissime e, a parte i Paesi sottosviluppati, e tra questi metto anche gli Stati Uniti, in giro per il mondo si lavora con la sostenibilità semplicemente per un motivo: perché è più economica. Il modo migliore per fare un progetto ecosostenibile è fare un oggetto che sia bello, o quanto meno che abbia un pubblico a cui piace, e che stia in piedi. È come quando mi dicono che bisogna usare le fibre naturali. Va bene. Ma se una giacca in fibre naturali punge come un filo spinato perché non posso fare dei trattamenti alla fibra naturale per renderla comoda? Solo per essere ecosostenibile? Io devo dare un prodotto che funzioni. Se veramente pensato con intelligenza, ogni progetto è ecosostenibile. Il problema vero è che noi, oggi, abbiamo bisogno di avere l’etichetta, la bandierina dell’ecosostenibilità. Va bene, perché no. Ma non è necessario spenderla come unico elemento topico di un progetto. Io devo raccontare una storia più complessa. Non mi sono mai piaciute le divisioni ideologiche. Figuriamoci se nel 2018 bisogna ancora essere qui a discutere tra chi fa le cose in un modo e il resto del mondo che consuma.
Cosa è quindi per lei l’ecosostenibilità?
Il modello migliore di ecosostenibilità è costruire degli edifici che abbiano una durata lunghissima. Mentre molti edifici progettati da colleghi che cavalcano la sostenibilità dopo pochi anni devono fare un refurbishment perché si è consumato troppo, i materiali non erano adatti, perché sono invecchiati di colpo. Ma allora di cosa stiamo parlando? Oggi si sta abusando della parola ecosostenibilità e anche in maniera ingannevole. Le faccio un esempio. Senza fare nomi, circa quattro anni fa, un collega olandese ha progettato una sedia per un’azienda italiana, in plastica riciclata al 90% dalle bottiglie di Coca Cola e con il 10% di un componente segreto che le conferiva la parte strutturale. La plastica riciclata ha un problema, la seconda volta che viene riscaldata perde il 60% delle sue caratteristiche strutturali. Tecnicamente, il filamento molecolare spesso si interrompe e diventa troppo morbido. La sedia ha avuto ovviamente un grandissimo ritorno mediatico, peccato che quel 10% aggiunto valesse più del 100% della plastica normale, nel senso che quel 10% inquina come il 100% di plastica non riciclata. Quindi se devo fare una sedia per Kartell uso plastica nuova e non di riciclo.
È anche vero che un hotel deve sempre avere un aspetto accattivante. E quindi deve essere rinnovato spesso per restare al passo con i tempi.
Gli americani hanno un modo di dire molto crudo: business is business… se devo fare funzionare la macchina e mantenerla efficiente e al passo con i tempi, devo fare frequenti interventi di restyling. Ma non è questa la mia idea. Secondo me la bellezza di un progetto è che abbia un pensiero per mantenersi in vita non 1, 2, 3 anni ma, in relazione con l’investimento, almeno 10 anni. Altrimenti ho sbagliato progetto.