Lo studio valenciano CuldeSac è una grande famiglia che condivide idee, conoscenze ed esperienza, oltre ai pasti. Un atelier che cresce insieme alle persone, e che è molto più che creatività
Pepe García è socio fondatore dello studio valenciano CuldeSac. Formatosi presso il Royal College of Art di Londra, dal 2002 García dirige uno degli studi più poliedrici del panorama spagnolo, collaborando con marchi di prestigio nazionali e internazionali. Ciononostante, García non si sente più importante della sua equipe, a cui ribadisce che “chi comanda nello studio è sempre l’idea migliore”.
La pandemia ha avuto ripercussioni sul vostro lavoro?
All’inizio sì. Tutti i progetti hanno subito una battuta d’arresto in primavera. L’ultimo trimestre del 2020 è ripartito molto bene e direi che il 2021 prosegue nello stesso modo.
Ci sono molti studi che non possono dire lo stesso, a cosa è dovuto questo successo?
Si, ne siamo consapevoli. Molti credono che il nostro sia uno studio incentrato sul lavoro creativo, ma non è così: dietro alla creatività c’è una struttura business oriented molto attiva, perché fin dagli inizi comprendere i meccanismi del settore è stata una priorità.
Dal 2002 a oggi lo studio è cambiato e cresciuto: un’equipe formata da una ventina di persone…
Iniziammo in due, con una formazione in disegno industriale, progettando pagine web. Poco a poco, dal disegno del prodotto siamo passati a quello dello stand, dallo stand alla progettazione dell’evento e infine all’interior di uno spazio, spacializzandoci in punti vendita e ospitalità, dove si ha a che fare non tanto con un discorso di gusto soggettivo ma di numeri e mercato, dove il nostro lavoro si può misurare in modo più oggettivo e tangibile.
Qual è la struttura attuale dello studio e come funzionate?
Il progetto è la somma dei contributi di diverse specializzazioni. Concepiamo il lavoro in modo olistico, per cui lo studio è pensato come una sorta di catena di produzione, con il team creativo, quello tecnico e quello gestionale, con un dipartimento dedicato agli interni, uno dedicato alla progettazione del prodotto, che si concentra sul design di packaging, arredi e illuminazione, e uno dedicato al disegno grafico e alla comunicazione. A seconda del progetto e delle necessità generiamo un cocktail di competenze ad hoc. Lavoriamo come un’orchestra dove ogni strumento suona la sua partitura.
Quindi con un approccio di questo tipo i vostri progetti hanno uno stile, un denominatore comune? Qual’è secondo te la cifra di CuldeSac?
Il nostro non è uno stile estético, ma una metodología di lavoro, un sapere attorno al business. La capacità di offrire un approccio e una soluzione a partire da molti punti di vista è molto CuldeSac. Collaborazione e condivisione sono punti di forza: il momento in cui ci si siede tutti attorno a un tavolo a discutere del progetto. La sensazione di comunità e famiglia a CuldeSac è fondamentale.
I vostri slogan: “condividere e rischiare” ma anche “reason loves emotion”…
Il motto parla di questa dualità: siamo uno studio creativo, ma che allo stesso tempo lavora in modo analítico per comprendere il cliente e il mercato in cui si muove. La creatività come mezzo, non come fine, come parte della strategia. Concepiamo sempre il cliente come parte della soluzione. È lui che traccia il foglio di viaggio. E non è sempre facile: quel che facciamo è adeguare la metodología di lavoro in base al profilo di cliente. Spesso il lavoro di tipo psicológico è molto intenso, con una buona parte educativa e di evangelizzazione.
Qual è il miglior cliente?
Quello che ci obbiga a sforzarci, che ha capacità di visione, non importa dove sia. Anzi, spesso è più facile lavorare con un cliente straniero, perchè la distanza física lo rende più paziente e consapevole del timing del progetto.
Come vedi l’evoluzione del retail?
Per noi il futuro sta nel retail, e per un motivo molto semplice: il nostro futuro è già realtà in Cina, in Asia, a San Francisco. È suffiente affacciarsi a questa finestra per sapere cosa accadrà qui in Europa tra due o tre anni. Si tratta anche di essere nel posto giusto al momento giusto, ma ci sono cose che non si possono accelerare, perchè il cliente e il consumatore europeo non sono ancora in grado di accettare certe situazioni. Fondamentale è uscire dai confini europei e vedere quali modelli di business stanno funzionando. Putroppo il futuro non si gioca qui in Europa.
Come credi che evolverà questo settore?
Veniamo da un’época dove tutto si basava sul marketing, ma mai prima d’ora il consumatore è stato così consapevole e informato, grazie anche alla rete. Per noi il futuro del retail passa attraverso la comprensione del marchio al di là delle vendite. Oggi la scommessa per un’azienda è quella di diventare un’alleata grazie alla quale l’individuo possa migliorare la sua vita, la sua attività, fino a diventare imprescindibile. Il brand deve essere interiorizzato.
Nell’hospitality succede lo stesso?
Ció che mi piace della situazione attuale è il fermento, stiamo ripensando molte cose, qualcosa perde valore e nascono nuovi modi di intendere il business. Viviamo un cambio di paradigma, siamo passati dai megaristoranti a piccole superfici senza tavoli, come quello a cui stiamo lavorando: un locale di venti metri quadrati con cucina e zona distribuzione, due impiegati e duemila clienti durante il week end.
Parlando di progetti in corso, a cos’altro state lavorando?
Al momento a uno showroom per il settore industriale in Marocco, a corner, negozi, hotel in Spagna, packaging. Siamo eclettici, e siamo specializzati nel fare cose per la prima volta.
Dobbiamo e vogliamo potenziare il mercato internazionale. Attualmente abbiamo contatti in Europa dell’est nel campo dell’hospitality e della ristorazione. In Cina abbiamo lavorato intensamente per cinque anni. L’Asia mi piace molto, è il futuro, anche se spaventa.