Protagonisti
Matteo Nunziati

Donald Trump sceglie ancora una volta l’italian touch. Tutto merito di MATTEO NUNZIATI, geniale e talentuoso designer delle Trump Tower di Pune e di Nuova Delhi, oltre che di splendidi luxury hotel che soddisfano le più elevate qualità estetiche e tecniche

Una piacevole sorpresa Matteo Nunziati, talentuoso designer italiano ma anche l’architetto delle Trump Tower oltre che di vari hotel extra lusso in giro per il mondo. Una smodata passione per la qualità del design di casa nostra, secondo lui l’unico in grado di trasmettere un vero e proprio stile di vita, e una straordinaria capacità di accostare colori, materiali e tessuti, che forse gli deriva proprio dall’italianità, da quel nostro vivere in luoghi intrisi di bellezza. Una chiacchierata su come è cambiato in pochi anni il mondo dell’hotellerie, ma anche sul concetto di bellezza e di lusso. Matteo Nunziati si racconta a Guest.

Cosa si prova a essere l’architetto delle Trump Tower nel mondo? Ci racconta questa esperienza?

Tutto è cominciato con le Trump Tower di Pune: l’investitore indiano cercava proprio un designer italiano e, dopo aver valutato vari studi, ci ha trovato su segnalazione di alcune aziende con le quali collaboro. Quindi ho preparato un concept design che ho presentato alla famiglia Trump nel 2014. Sono andato a New York dove ho incontrato Ivanka, Donald, Donald Jr ed Eric Trump. Il concept è piaciuto e siamo andati avanti. Il cambio di passo è avvenuto nel 2015, durante l’inaugurazione della Trump Tower, ovviamente alla presenza di Donald Trump: era entusiasta e ha dichiarato che neanche a Manhattan aveva visto tanta qualità. Dopo qualche mese ho ricevuto una telefonata nella quale mi si annunciava che Trump mi voleva parlare. Ho pensato a uno scherzo. Invece no, quindi ho preso un aereo per Miami dove ho incontrato Ivanka e suo padre che mi hanno affidato la progettazione del loro Golf Club a Miami. Trump mi ha molto stupito: pensavo fosse più rivolto al marketing, invece conosce molto bene le problematiche del cantiere e di quelle abbiamo parlato. E oggi stiamo progettando anche gli interior delle Trump Tower a Nuova Delhi.

Nel suo portfolio vedo tanto contract e residenziale, ma anche molti hotel up level in tutto il mondo. Dal 2000, anno in cui ha aperto il suo studio a Milano, a oggi l’hotellerie si è rapidamente evoluta. Cosa è cambiato?

Il cambiamento più importante è l’avvicinamento tra il mondo del residenziale e quello dell’hotel, una sorta di contaminazione di stili e materiali. Una volta la demarcazione tra l’interior dell’hospitality e quello della casa era molto netta, l’hotellerie richiedeva mobili e materiali dedicati mentre il residenziale seguiva le sue regole. Oggi, invece, molti progettisti nati nel settore residenziale sono prestati al mondo degli hotel, questo perché è cambiato il senso di stare in albergo: il fruitore vuole sentirsi a casa. Negli ultimi hotel che stiamo realizzando utilizziamo anche delle stylist che ci aiutano a “vestire” il progetto dell’albergo con oggettistica, sedute e letti tipici di ambienti domestici. D’altra parte c’è anche una reciprocità: spesso nei progetti di case, anche su richiesta della committenza, utilizziamo cifre stilistiche legate all’hotellerie. Per fare un esempio ambienti bagno inseriti nelle camere padronali e senza divisioni nette.

E cosa pensa della contestualizzazione del progetto architettonico e di interior?

Oggi è sempre più difficile trovare un albergo replicato in varie parti del mondo, come si usava una volta. Ora è proprio il contrario, soprattutto nei luxury hotel, dove personalizzazione e legame con il territorio sono percepiti come valori. Nelle Fraser Suites a Doha abbiamo progettato ambienti molto legati al territorio e alla tradizione islamica, tradotti però in un linguaggio contemporaneo e italiano, nel senso che c’è una cura dei dettagli, degli arredi, dell’oggettistica che è tipica della nostra cultura. Abbiamo progettato un’esperienza per fare sentire l’ospite inserito nel contesto locale, ma con la ricercatezza tipica dell’italian style.

Ha una lunga esperienza nell’insegnamento in master dedicati all’interior e al design per hotel. Qual è il filo conduttore delle sue lezioni?

Il primo passo, che sembra scontato ma non lo è, è capire perché si fanno determinate scelte. Nel nostro lavoro si usano tante parole, spesso senza conoscerne il significato. Quindi le prime lezioni che faccio sono sempre incentrate sul concetto di bellezza. Quando facciamo design vogliamo fare qualcosa di bello. Cosa vuol dire bello? Quando lo chiedi a trenta persone che arrivano da tutte le parti del mondo, come capita nelle classi della Domus Academy, le risposte sono molto vaghe e confuse. Secondo me capire cosa significa la bellezza è il primo passo.

Cosa sono per Matteo Nunziati la bellezza e l’ospitalità?

Considero l’hotel alla stregua di un oggetto di design, è un prodotto in cui c’è un investimento, un target, dei fruitori: qualcosa da studiare con le sue caratteristiche funzionali connesse con l’uomo. Ma l’uomo non ha solo esigenze funzionali, ha anche desiderio di bellezza, un bisogno esistenziale altrettanto concreto. A volte si può impiegare una giornata scegliendo un tessuto o un colore, ma non è tempo perso, è tempo che si impiega a favore del bello. La bellezza è un aspetto reale e concreto della vita dell’uomo, che suscita emozione e muove il cuore delle persone. E sempre, anche in progetti low budget, si può fare qualcosa di bello.

E cosa mi dice a proposito del lusso?

Lusso e ospitalità sono una corrispondenza dei valori di bellezza, benessere e qualità della vita. E anche in questo caso, il lusso non è necessariamente costoso. In un mio viaggio in Venezuela, con mia moglie, in un ristorante molto semplice, con tavolini da pochi soldi posizionati direttamente sulla spiaggia, abbiamo mangiato pesce cucinato al momento, con il mare davanti. Per me questo è il lusso.

Quello che appare molto evidente nei suoi progetti è l’eccellenza del design italiano. Il made in Italy fa la differenza?

Sì, perché il design italiano trasmette lifestyle, un modo di vivere di qualità. Questo noi l’abbiamo nel DNA, forse perché siamo cresciuti in un paese intriso di bellezza. Per noi è naturale accostare due tessuti, due marmi, magari senza neanche pensarci, ma ottenendo risultati strepitosi. È una nostra qualità che stupisce il committente straniero.

ABYAAR VQ VENTIQUATTRO RADISSO SAS RESIDENCE DUBAI MARINA

È facile rapportarsi con le maestranze straniere?

All’estero, soprattutto nei paesi anglosassoni, considerano lo studio di interior come un’azienda. Spesso ci confrontiamo con studi di duecento persone che “fabbricano progetti”. Noi, invece, lavoriamo come un atelier, con un altro approccio, più qualitativo. In studio siamo in dieci persone, quasi una boutique del design. Studiamo tutti i concept iniziali e poi scegliamo dei partner locali che li sviluppano. Ma in fase di realizzazione anche noi partiamo per seguire direttamente il cantiere, per evitare reinterpretazioni da parte del contractor e delle maestranze. Così abbiamo fatto per il Fraser Hotel, ed è riuscito particolarmente bene. La gestione on site del progetto per noi è fondamentale.

Spesso nelle sue realizzazioni è molto importante il tailor made. Preferisce fare produrre in Italia e installare in loco?

Cerchiamo il più possibile di coinvolgere fornitori italiani perché questo ha un impatto sulla qualità del progetto. Non è sempre facile, perché il prodotto italiano costa circa il trenta per cento in più, ma alla fine vince la qualità. Prendo sempre a esempio il Fraser: inizialmente l’investitore, mirando al risparmio, aveva escluso aziende italiane a favore di una produzione cinese. È bastato portarlo al Salone del Mobile e accompagnarlo nelle nostre aziende, mostrandogli come si produce in Italia, per fargli cambiare idea. Non a caso il Fraser Suites di Doha è sempre pieno, con una lista di attesa infinita, a differenza di altri hotel di lusso, sempre a West Bay, che hanno utilizzato prodotti cinesi. La qualità porta dei vantaggi a tutti e farlo capire agli investitori è un approccio educativo.

Ha materiali e colori che predilige?

Nei miei progetti cerco di non esagerare mai e nella scelta dei materiali e dei colori sono abbastanza libero. Mi piace sempre il tono su tono anche se in questo momento, per le Trump Tower a Nuova Delhi, sto lavorando su punti di rottura a questo schema. Uso molto la ceramica ma non come imitazione del legno o del marmo, come si usava fino a poco tempo fa. Oggi con il grande formato, che con il marmo non si può fare, la ceramica diventa un materiale a sé, con caratteristiche molto interessanti.

Per gli alberghi che ha progettato ha dovuto fare i conti con centinaia di camere… quasi una progettazione seriale. In questi casi quanto si riesce a salvare della creatività?

La capacità sta nel creare quel sapore di casa all’interno di un progetto che si ripete. Così abbiamo fatto al Fraser, al Radisson Blu di Dubai e per le Trump Tower. Con l’oggettistica e la decorazione abbiamo personalizzato gli ambienti, creando quasi una sensazione di vissuto.

Quanto dell’architetto Nunziati e quanto del committente c’è nei suoi progetti?

Di solito intorno al tavolo ci sono tre figure fondamentali: il progettista, l’operatore e l’investor. E ci deve essere sinergia tra tutti e tre per creare un progetto di valore. È come una relazione di coppia ma tra tre persone: un po’ bisogna dare, un po’ bisogna cedere al compromesso, a volte bisogna tirarsi indietro. L’hotel è una macchina che deve funzionare anche quando l’architetto esce di scena, quindi bisogna sapere interpretare le esigenze di chi lo dovrà gestire.