Protagonisti
Gaetano Pesce

Irrequieto, dirompente, geniale ed estremo: Gaetano Pesce, esplorando tanti territori senza una direzione univoca, ha definito la grande storia del design italiano. Lo abbiamo incontrato nel suo laboratorio all’Arsenale Navale di Brooklyn, e ci ha parlato di arte, di design e del suo “irrinunciabile” diritto all’incoerenza, fonte di ispirazione dei suoi ultimi lavori

Ha realizzato comode e avvolgenti sedute, di tutte le forme, di tutte le sembianze. Poltrone, divani e sedie per ogni stagione della vita, funzionali per stare allerta o confortevoli per indulgere. Eppure lui comodo non ci è mai stato. Impossibile per Gaetano Pesce, uno irrequieto, dirompente, estremo, ostico talvolta. Una volta, quattro anni fa, insieme all’amico Vittorio Sgarbi, architettò una boutade: la notizia della propria morte, nel giorno dell’inaugurazione di una sua retrospettiva. La notizia passò in tutti i telegiornali causando una cascata di sgomento da parte di amici e conoscenti. E di nervosa incredulità tra le persone a lui più vicine: infatti era tutto uno scherzo, che fece passare ai suoi stretti collaboratori qualche ora di puro caos.

Ecco, le cose con Gaetano Pesce non sono spesso comode nè dritte. Ma se si ha la fortuna di entrare nel suo laboratorio, un open space nell’Arsenale Navale di Brooklyn, oppure di sfogliare gli album dei suoi incantevoli disegni, si riesce ad affondare il cuore nel personaggio – negli affetti, nelle paure e nelle tensioni di un carattere complesso – e in un mondo che, esplorando tanti territori senza una direzione univoca, ha definito la grande storia del design italiano.

La serie dei tuoi ultimi lavori si chiama Irriconoscibile. Che è anche una delle fasi più mature del tuo lavoro, dopo la multidisciplinarità, l’astrazione e la figurazione, la natura femminile del progetto, il non standard e il malfatto. Cosa è “irriconoscibile”? 

Gia negli anni Cinquanta, presentando dei miei disegni, io parlavo di “diritto all’incorenza”. Ero e sono convinto che l’incoerenza mentale ci permette di comprendere aspetti diversi della realtà e segnala che siamo attenti al cambiamento dei valori e alle interferenze che avvengono intorno a noi. Soprattutto ci permette di essere liberi da noi stessi. In questo senso la mia produzione si è sempre evoluta con una tensione all’irripetibile, al contraddittorio, forse al tradimento delle convinzioni, che negli ultimi anni mi ha portato a mettere a fuoco l’idea  del non riconoscibile o irriconoscibile. In poche parole, vorrei che chi non sapesse di visitare una mia mostra, pensasse di aver visto una collettiva di diversi artisti e non quella di un unico creatore. 

Questo ossimoro è infatti uno dei tratti più distintivi di Gaetano Pesce. Se provassimo però a tracciare un fil rouge in questa frastagliata produzione, quale sarebbe?

Mentre il mio lavoro ha attraversato diversi capitoli, come dicevamo – la figurazione, il difetto, la liquidità dei valori, la funzione politica dell’architettura e del design – la caratteristica immutata è sicuramente la ricerca di espressioni realizzate con materiali contemporanei.

A parte la serie UP, qual è il progetto da te realizzato che consideri più iconico per la storia del design e che ha fatto scuola? E quale quello meno compreso?

Il meno compreso come progetto è stato Sit Down. Si trattava di una combinazione poltrona e divano stampati in un nuovo modo che dava origine a risultati di volta in volta diversi. Il prodotto finale era piuttosto informe, che il mercato non ha capito, però era la seconda volta che provavo a fare una produzione in serie dove ogni pezzo era diverso. In questo senso era un progetto che ricordo con grande simpatia. Per quanto riguarda il più iconico ce ne sono diversi: il divano “Tramonto à New York”, prodotto da Cassina, il contenitore “Anna Frank”, che si trova in una collezione privata in Olanda, alcune pelli-disegni su resina, il portacenere “Mano di Dio”, il tavolo “Sansone” o il tavolo basso “la Massa schiaccia le Minoranze”.

Qual è il lavoro, fra i più recenti, a cui sei più legato. Più meditato, più rappresentativo di questi tempi?

Il più rappresentativo di questi tempi è un oggetto che ho finito due mesi fa. Si tratta di una scaffalatura a forma di ramo di albero, il cui titolo è Never My Love. Si tratta di un progetto che non mi rappresenta secondo quelle che sono le caratteristiche del mio lavoro passato, inoltre parla della natura ostile al genere umano: la vera natura e non quella ammaestrata dall’uomo. La natura dei terremoti, delle trombe d’aria, delle inondazioni e delle piogge torrenziali.

Cosa serve al design per diventare arte? 

Al design per diventare arte serve una seconda dimensione. In genere, tradizionalmente il design si esprime solo attraverso la funzionalità, ma da cinquant’anni cerco di far capire che se si vuole che il design diventi un’espressione adulta si deve aggiungere il significato politico, religioso, sociale, culturale. In altre parole, se un tavolo esprime non solo la praticità della sua funzione, ma anche il racconto biblico di Sansone che distrugge la casa dei conservatori, il tempio dei Filistei, allora in quel momento quel tavolo comincia a essere portatore di valori simbolici che appartengono al campo dell’arte. Se una applique che fa luce racconta anche la storia di una donna obbligata a coprire il proprio corpo per rimanere proprietà dell’uomo che la rende schiava, in quel momento diventa una scultura che fa luce. E così via con molti progetti che si esprimono attraverso il binomio funzione-espressione. Il ritratto nella pittura del passato é un buon esempio: se fatto da un pittore capace di fare un lavoro somigliante, il risultato sarà funzionale. Se fatto da un artista come Tiziano o Rembrandt allora il ritratto non è solo somigliante ma anche fatto con il linguaggio di un artista. E dunque un lavoro d’arte. 

Come metti a fuoco le idee creative? Quale il processo?

In questo non c’è una regola. Se sono su un aeroplano e mi viene un’idea, la schizzo sulla tovaglietta che sta sotto il bicchiere, se sono a casa cerco di fare delle cose con mezzi rudimentali, come schizzi più approfonditi e piccoli modelli. Se sono al workshop, con l’aiuto di Alessandro e degli altri miei collaboratori, facciamo qualcosa che è un prototipo definitivo. L’idea però avviene attraverso la concentrazione, è una forma di eremitismo che non avviene nel deserto ma nella vita normale di ogni giorno, dove però è possibile concentrarsi.

Un ricordo su alcuni dei migliori committenti con cui hai lavorato e che traguardi ti hanno permesso di realizzare.

In assoluto il miglior committente è stato Cesare Cassina, un uomo semplice, la cui semplicità era gemella della sua lungimiranza. Un uomo che senza saperlo amava il progresso e per la sua industria amava le idee nuove, un uomo che aveva fatto solo la terza elementare ma aveva la curiosità di andare a cercare Rietveld, Le Corbusier, Mackintosh e i loro progetti. Con lui ho potuto realizzare facilmente degli oggetti che alla fine della produzione risultavano uno diverso dall’altro, in altre parole la produzione di originali e non di copie. Con lui non ho avuto nessuna difficoltà a dar forma a questa straordinaria idea che ancora oggi, a distanza di 48 anni, molti cercano di seguire. Questo industriale mi ha permesso di fare la Up5&6 senza nessun pregiudizio e proprio questa seduta è stato il primo oggetto pratico/funzionale con espressione politica, cioè la donna vittima delle paure e dei pregiudizi dell’uomo, che dopo 51 anni è purtroppo ancora di straordinaria attualità.

Ci sono persone o luoghi o anche una routine che consideri alleati e stimoli per tua creatività?

In tempi normali (questa intervista è stata realizzata in tempo di quarantena, ndr.) l’unica cosa che ripeto nella mia vita è andare a mangiare al ristorante Antonucci. Questo luogo per me è diventato come una famiglia. Francesco, il proprietario, ha saputo creare un’atmosfera piacevole dove il denaro non è protagonista e invece lo sono l’amicizia e la ricerca della buona qualità. Durante i mesi estivi sedersi sul patio da Antonucci e osservare il passaggio della strada mi suona come una cosa molto poetica: è la realtà che parla di un luogo con caratteristiche precise, che si chiama Manhattan.

L’uso del colore e’ un po’ la tua firma. Il rosso, da quello acceso a quello ruggine, è stato un colore che ha identificato una larga parte della tua produzione. Come è cambiato il rapporto col colore oggi? Che parte ha nella produzione di un oggetto? 

Il colore è un avvertimento, un segnale, è un modo per attirare l’attenzione, e più è caldo e avvolgente, più l’attenzione è attiva. Il rosso lo amo come principe dei colori. Questo mi proviene dalla tradizione dell’arte veneziana che impostava molto il suo valore artistico sul colore. Nel tempo le cose sono un po’ cambiate e oggi mi piace usare dei colori trasparenti, tenui, il cui dialogo è solo per chi lo sa capire.

Sei un viaggiatore instancabile. Puoi chiamare casa New York, Parigi e tante città in Italia. Come hanno contribuito alla tua storia artsitica? 

Direi principalmente la mia presenza a Venezia durante i miei studi mi ha dato molto, poi nell’identità dei miei compaesani esiste l’amore per il viaggio, per la scoperta, spinti dalla curiosità di conoscere. Le prime volte che sono uscito dall’Italia l’ho fatto perché senza la tessera del partito comunista non c’erano buone sorti per me. Non sono mai stato un conformista politico, ho sempre cercato di informarmi e poi comportarmi secondo la mia mente e il mio giudizio. Non amo il politicamente corretto in quanto esprime una rinuncia a usare il proprio cervello e comodamente usare quello degli altri. La libertà non esiste, ma se un quoziente di essa deve essere un traguardo, credo che lo si possa raggiungere solo rimanendo se stessi.