Protagonisti
Fabio Novembre

Architetto e designer tra i più apprezzati al mondo, Fabio Novembre ha firmato spazi e oggetti diventati iconici, di grande forza espressiva.

Architetto e designer tra i più apprezzati al mondo, Fabio Novembre ha firmato spazi e oggetti diventati iconici, di grande forza espressiva. Nel suo percorso collabora, tra gli altri, con Cappellini, B&B Italia, Venini, Meritalia e Kartell e dal 2019 è art director di Driade, direttore scientifico di Domus Academy e membro del comitato scientifico del Museo del Design della Triennale di Milano. Lo intervistiamo alla vigilia del Salone per parlare di creatività e design e, inaspettamente, ci spiega che “l’amore è l’unica soluzione per la risoluzione dei problemi”.

Onirico, sensuale, provocatorio, dissacrante, eclettico… ti riconosci? Ti hanno definito anche “elegante e pop”: uno, entrambi o nessuno dei due?

Gli aggettivi sono come abiti da indossare a seconda dell’occasione, e il mio guardaroba è piuttosto ampio.

“Design” è una parola quanto mai liquida: cosa significa per te, e qual è oggi il suo senso?

Il design è una naturale attitudine dell’uomo, l’unico animale capace di modificare a suo favore le condizioni che lo circondano invece che adattarvisi. Bisogna però ammettere che questa particolare attività lo porta spesso a sconvolgere gli equilibri da cui dipende, danneggiando più o meno consapevolmente se stesso e il suo ambiente. Io credo che la vita sia soprattutto un problema di allineamento delle priorità, e forse fare design è proprio questo: stabilire le proprie. Un buon designer deve essere prima di tutto una buona persona, in maniera che la sua voglia di trasformazione non evolva in forme di prevaricazione.

Dopo l’epoca della funzionalità e quella dell’estetica, in quale dimensione secondo te può trovare oggi spazio una creatività davvero originale e fuori dagli schemi?

L’amore è l’unica piattaforma per la soluzione dei problemi, il vero antidoto all’individualismo. C’è chi ha definito gli italiani un popolo di buoni a nulla capaci di tutto, ed è quel tipo di capacità che dovremmo recuperare. Dovremmo giocare a chiudere il cerchio produttivo in un girotondo di creazioni libere, inutili, perfette. Fare progetti come fiori, senza valutarne l’utilità immediata ma semplicemente per la gioia che sanno regalare.

Specializzazione vs multidisciplinarietà: dove sta andando la tua professione?

Da sempre ripeto che non amo gli specialismi. Non mi sento un professionista, bensì un dilettante. Il dilettante, per la natura stessa del termine, è colui che prova diletto nel fare le cose. Inoltre la traduzione del termine sia in inglese che in francese è amateur. Credo sia evidente a tutti che è meglio provare diletto e amare che tradurre la passione in «professionismo/specialismo».

Il passato può essere una lezione ma anche un freno: che rapporto hai con i maestri della grande stagione dell’Industrial Design?

Io ho amato i miei Maestri, non ho avuto il bisogno di ucciderli (metaforicamente) per evolvermi. Voglio pensare di averli interiorizzati. Mi piace immaginarmi con il carisma di Sottsass, l’ironia di Magistretti, la profondità di Branzi e la leggerezza di Mendini.

Hai spesso parlato di sostenibilità anche in termini quantitativi: produrre meno ma produrre meglio. È una possibilità concreta o un’utopia?

Il design è colpevole della sua connaturata tensione alla quantità. Il successo di un prodotto viene ancora misurato in termini di numeri venduti, tralasciando problematiche di impatto sostenibile o di soddisfazione del consumatore. È da molti anni che uso lo slogan “fare meno, farlo meglio“, e di tutto mi si può accusare, ma se si rapporta la mia produzione agli anni di lavoro sicuramente il mio è stato una sorta di “best of” preventivo.

Dal 2019 sei direttore creativo di Driade: cosa significa essere art director di un’azienda dai codici linguistici così forti?

Driade è sempre stata una bandiera italiana da portare orgogliosamente nel mondo, ed è mio il compito di farla sventolare. Il vento soffia grazie al contributo delle migliori menti, come nella tradizione di Driade: una ninfa che dopo 50 anni mantiene intatto il suo fascino. Siamo partiti da un’analisi dei progettisti di Driade da sempre legati all’architettura oltre che al design, nel solco storico tracciato da Ernesto Nathan Rogers nel 1952. “Dal cucchiaio alla città” rappresenta al meglio lo spirito con cui ci stiamo muovendo. Ci saranno novità.

Uno dei tuoi ultimi progetti è il MediaWorld Tech Village di Milano, uno spazio che ridefinisce e supera le rigidità dello store tradizionale: cosa hai portato del tuo precedente lavoro in questo intervento?

Walter Benjamin diceva: “La tecnologia non è la conoscenza profonda della natura ma la relazione fra la natura e l’uomo” ed è esattamente su questo pensiero che il nuovo flagship store Mediaworld di Milano fonda le sue radici. È stato per me un grande piacere poter collaborare con una realtà importante come MediaWorld e portare in vita questo progetto. I miei spazi nascono per far incontrare le persone e il Tech Village permette di vivere la tecnologia in un modo tutto nuovo, più umano e intenso. Al momento stiamo lavorando su altri flagship store in Europa.

Hai spesso parlato dell’importanza del Salone del Mobile, che dopo il rinvio dello scorso anno andrà in scena a settembre in un format inedito: un rischio o una scelta giusta?

Il Salone del Mobile è un evento riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo. La consuetudine della sua frequentazione, come per molte azioni umane, se interrotta rischia di essere messa in discussione. Questa è un’eventualità che non possiamo permetterci.

Non mi sento un professionista, bensì un dilettante. Il dilettante, per la natura stessa del termine, è colui che prova diletto nel fare le cose