Al di là dei luoghi comuni, la light designer Birgit Walter è uno splendido mix di efficienza teutónica, determinazione newyorkese e solarità spagnola, e il suo studio BMLD è il risultato della contaminazione tra diverse culture e way of thinking
Per Birgit Walter immaginare la luce ha in sè qualcosa di magico. Il suo incontro con la professione è stato amore a prima vista, quando era ancora una studentessa del corso di Interior design. Dopo il master in LD a New York è rientrata a Barcellona, dove è stata tra i primi a dare un inquadramento a un mestiere praticamente sconosciuto in Spagna, fondando, insieme ad altri tre colleghi, la prima associazione di lighting design (APDI) e il primo master dedicato, e gettando di fatto le fondamenta della professione.

Il suo studio, BMLD, ha all’attivo progetti legati soprattutto all’hospitality e al retail, ma ha illuminato anche spazi espositivi e auditorium. Tra quelli realizzati a Barcellona il Palau de la Música, il centro espositivo Arts Santa Mònica, il Museo Mnac, i centri commerciali Diagonal Mar e Glories, gli hotel W, Nobu, e The One, il ristorante Zela a Ibiza tra gli altri; l’Hotel Taj Mahal Palace e i cinema Pvr in India.

Quella del light designer è una disciplina ancora troppo poco conosciuta dai progettisti di architettura, ma lo è ancora meno dal cliente finale. Qual’è la formula per convincere un committente che si tratta di una figura necessaria?
La luce è un elemento chiave per mettere in risalto e accompagnare l’architettura. Senza luce non c’è contrasto, forma, nè colore o ritmo. Luce e ombra formano un tandem, sono come lo yin e lo yang, non esistono uno senza l’altro. La luce, inoltre, ha la grande capacità, e responsabilità, di modificare i comportamenti. Il nostro lavoro consiste nel tener conto di tutti questi fattori, e molti altri, all’interno di uno spazio. Quel che facciamo è valorizzare e potenziare il progetto, dandogli un valore aggiunto e rendendolo visibile. La figura del LD è fondamentale soprattutto quando si vuole che il progetto sia emblematico.

Il vostro è un mestiere con un alto grado di complessità ma spesso invisibile al cliente, che non sempre dispone di un budget dedicato al lighting design. Come vi muovete dunque?
Nel nostro caso la chiave è lavorare con clienti internazionali in progetti multidisciplinari: il progetto che richiede un architetto, un ingegnere, un paesaggista, un interior, di solito contempla anche un LD. Si tratta di opere di una certa dimensione, con un altissimo livello di controllo, dove il fattore di rischio deve essere minimo.

In paesi come la Germania o l’Inghilterra non si concepisce un progetto senza uno specialista in illuminazione. Perchè in Spagna ci sono meno studi di LD che in altri Paesi?
Perchè anche per le professioni esiste un momento maturo, che non significa che non ci siano grandi professionisti sul territorio, ma è il mercato che detta legge. Se fino al 2000 in Spagna non esistevano studi di LD è perchè non se ne sentiva il bisogno. Oggi ce ne sono una decina perchè è diventata più evidente la necessità di un professionista della luce, perchè si è visto che fa la differenza. Un progetto d’illuminazione mal fatto può rovinare una buona architettura.

Uno spazio preferito da progettare?
Adoro l’ombra, ma in hospitality e retail gli spazi che consentono di lavorare con l’ombra sono pochi, perchè la normativa stabilisce livelli luminici piuttosto alti. Ciò che si avvicina di più alla mia idea sono i locali notturni, i cocktail bar. Ne abbiamo progettato uno ultimamente, il ristorante Zuu all’interno dell’Hotel Sofia a Barcellona, in collaborazione con lo studio di Jaime Berenstein. Il risultato è un locale quasi totalmente in penombra, dove la proporzione luce-ombra è completamente ribaltata. Come capovolto è il concetto del “vedere ed essere visto” che forma parte dell’esperienza tradizionale del ristorante: qui l’intimità è quasi totale, e pare che i clienti lo apprezzino molto.

Illuminare senza che l’illuminazione sia protagonista. Oltre a questo, quale potrebbe essere la firma del tuo studio nei progetti che realizzate?
Direi innanzitutto che la diversità dei nostri progetti dipende dalla diversità degli studi di architettura con cui collaboriamo. Non imponiamo mai la nostra estetica, siamo sempre al servizio dell’architettura. D’altra parte ci piace anche proporre un elemento visibile, una scultura luminosa decorativa oppure punti focali potenti che non si vedono ma aiutano a generare una visione dello spazio, come abbiamo fatto con la spirale luminosa del Centro commerciale Glories o nell’hotel La Florida. Nell’immensa lobby dell’hotel Rey Juan Carlos I, sempre a Barcellona, disegnata da Carlos Ferrater nel ’92, l’illuminazione è integrata nella struttura delle pergole ed è posta sui tavoli. In questo modo, grazie all’uso della luce, si è riusciti a creare spazi di maggiore intimità senza negare l’architettura esistente.

In fatto di illuminazione esistono tendenze?
Certamente, l’ultima è stata quella del colore con i led, che per fortuna sta passando. Si sta iniziando a lavorare con schermi e sensori interattivi, ma per ora è un ambito di ricerca rivolto esclusivamente alle abitazioni di lusso: l’obiettivo è che i sensori siano in grado di riconoscere lo stato d’animo delle persone e di conseguenza generare degli effetti luminosi come risposta. La direzione è senz’altro questa, perchè in quanto consumatori vogliamo essere sempre più partecipi e interagire con lo spazio.

Su quali progetti state lavorando?
Diversi, e molto interessanti. In India per il gruppo alberghiero Taj e per PvR, un’azienda che costruisce edifici multisala in stile americano, e a un hotel a Mumbai. Poter lavorare in India per me è un lusso e un sogno da sempre. Qui in Spagna, invece, stiamo progettando due centri commerciali, alcuni hotel e un Hard Rock Cafè.
