A tu per tu con Francesco Meda: il designer milanese ci ha aperto le porte della sua casa e del suo studio, per parlarci della sua filosofia progettuale, del rapporto con il padre Alberto, di come intende la sostenibilità. Che “non può restare una parola vuota”
Con il suo gusto per un’eleganza essenziale e un approccio focalizzato sulla materia, Francesco Meda è oggi uno dei designer italiani più apprezzati, basti dire che la sua lampada Bridge, realizzata tagliando un foglio di lamiera poi piegato a mano, è entrata a far parte della collezione del Triennale Design Museum di Milano. Non è l’unico riconoscimento ottenuto dal 37enne laureato in Disegno Industriale allo IED e formatosi a Londra negli studi di Sebastian Bergne e Ross Lovegrove, ma è forse il più importante, visto il legame di Meda con il capoluogo lombardo, dove è tornato a vivere dopo essersi reso conto che ciò che lo aveva portato nel Regno Unito lo aveva già nella sua città natale. Del resto, a trasmettergli la passione per il design è stato il padre Alberto, con cui ha vinto il Compasso d’Oro 2016 per il pannello fonoassorbente Flap – progetto a quattro mani per Caimi Brevetti – e con cui da tempo condivide uno studio-laboratorio in via Savona. E sempre a Milano, in un palazzo d’epoca in una via tra le più esclusive, c’è la casa dove abita con la figlia, la piccola Palma, e la moglie Alessandra Orsi, direttrice creativa di un’azienda di moda e fondatrice di Dalwin Designs, brand specializzato in carte da parati, piatti e articoli per l’home decor dipinti a mano con fantasie e motivi ispirati alla natura. “Studio e casa sono due ambienti molto diversi tra loro, ma riflettono entrambi un modo di essere e di interpretare la vita e il lavoro”, dice Francesco Meda, dal 2020 direttore creativo di Acerbis con lo spagnolo David Lopez Quincoces.
Partiamo dalla casa: con quali criteri l’avete pensata e arredata?
Né io, né Alessandra volevamo diventasse uno di quegli appartamenti da designer dove entri e ti sembra di stare in uno showroom, questa la prima idea che ci ha guidati. Dopodiché è un tipo di abitazione che rispecchia in tutto e per tutto ciò che siamo. Io e mia moglie viaggiamo molto e ci piace prendere spunto da altre culture, così che passando da una stanza all’altra si possono notare vasi, oggetti e influenze dal Sudamerica, dall’Asia, dai vari luoghi che abbiamo visitato. In più ci accomuna l’amore per l’arte, come si può intuire dalle opere sulle pareti: abbiamo amici artisti, pittori, fotografi, di cui abbiamo scelto lavori che spaziano dall’illustrazione alla natura, dall’astratto al figurativo.
Con il colore come vi siete mossi?
Lo abbiamo utilizzato per distinguere gli ambienti: c’è l’angolo rosso, attorno alla scala interna, ottenuto con polveri dal Marocco; per la cameretta abbiamo optato per un tema a righe… Quando entri non pensi di essere a Milano, ogni stanza ha la sua identità. La casa nasce dall’unione tra quello che una volta era l’appartamento dei genitori di Alessandra, dov’è cresciuta, e lo studio di suo nonno antiquario, e ha una struttura su due piani dal taglio particolare: sotto si trovano lo studio dove Alessandra dipinge e le camere da letto, sopra cucina, living e sala da pranzo, ed è qui che c’è l’ingresso principale, al livello superiore. Dove spesso inserisco anche prototipi di prodotti che sto sviluppando.
Ossia?
A volte si tratta di prototipi che voglio testare per capire come vivono nello spazio, altre di progetti non andati a buon fine per i motivi più disparati, che però a me piacciono. Ne ho anche in studio, tra i vari delle console in alluminio riciclato e colato inserendovi dentro dell’aria: la superficie così ottenuta, tutta bucherellata, evoca i crateri lunari.
Passando dal marmo all’ottone, come designer hai messo al centro della tua ricerca la materia in quanto elemento che orienta la progettazione: com’è nato questo approccio?
Non parto mai da una forma predefinita, ma dal processo produttivo o dai vincoli che un determinato materiale impone, per poi lavorare su questo aspetto con l’obiettivo di semplificare il più possibile il progetto e ottenere un’estetica non gridata, non urlata. Nel mio design l’estetica affiora in rapporto al materiale, ai suoi limiti e al processo produttivo che si può adottare: un conto è lavorare con un vetro che puoi soffiare dentro a uno stampo, un altro con la ceramica, per esempio. È un approccio che ho imparato esplorando l’autoproduzione: se vuoi realizzare una lampada per i fatti tuoi, fai di necessità virtù e ti concentri su un progetto senza troppi componenti, perché non puoi usare troppi fornitori, né investire come se fossi un’azienda.
Ora lavori per brand prestigiosi e condividi lo studio con tuo padre: che rapporto avete?
Lo studio è lo stesso dove mio padre lavorava già prima, da solo. Adesso lo dividiamo in due, ogni tanto collaboriamo su progetti a quattro mani, ma in generale ognuno ha i propri clienti. È un grande open space pieno di prototipi e campioni di materiali: anche se non manca una zona con divano che usiamo per appuntamenti e simili, sembra più una bottega, perché è questo il nostro spirito. Ciò detto, avere accanto mio padre mi ha permesso di vivere questo mestiere da subito in ogni sua sfaccettatura e di conoscere da vicino il percorso di un prodotto dalla nascita al lancio sul mercato: è stato come fare un master accelerato.
E l’autoproduzione?
È un ottimo mezzo per farsi conoscere quando si è giovani, ma pian piano ti rendi conto che è limitante, perché ti costringe a occuparti anche di comunicazione, della parte commerciale e di mille altre cose, e non si può essere bravi in tutto.
Tornando ai materiali, ne hai uno preferito? E quanto conta la sostenibilità?
Al di là dell’aspetto ecologico, amo i materiali naturali, ma trovo affascinanti anche i metalli. La plastica meno, anche se sono contrario al boicottaggio assoluto, perché la sostenibilità, sì, conta tantissimo, ma bisogna mettersi d’accordo su cosa sia: un conto è se con la plastica produci una sedia che dura decenni, un altro se ci fai dei bicchieri; idem per il legno, materiale naturale, vero, ma usandolo si disbosca. Insomma, quella dell’impatto ambientale è una questione complessa e va trattata come tale, considerando tutti i fattori e il processo produttivo nella sua interezza. E selezionando di più i progetti su cui lavorare, perché il problema di fondo è che produciamo troppe cose.
Esiste anche una sostenibilità estetica?
Certo, in tal senso il mio intento è sempre di disegnare prodotti che uniscano funzionalità, comfort ed emozione, e che non stufino, senza lasciarmi condizionare dalle mode. Ciò a cui aspiro è un linguaggio senza tempo.